Quello che unisce fotografia e paesaggio è un legame profondo e denso di significato. Ad immortalare l’origine di questa relazione è la prima immagine fotografica a noi nota: Point de vue (Punto di vista), opera dell’appassionato inventore Joseph-Nicéphore-Niépce. La lastra, scattata intorno al 1826, riporta infatti la veduta da una finestra della sua dimora in Borgogna. Nelle prime fasi della sua storia, la fotografia fu dunque soprattutto una fotografia di paesaggio, che trovava nell’immobilità di questo soggetto la soluzione ai lunghi tempi di esposizione richiesti dalle prime macchine. Un po’ scienza e un po’ arte, la fotografia del paesaggio si è fatta largo tra il dilemma di chi la riteneva una riproduzione meccanica della realtà e chi invece la levava ad una sua interpretazione artistica, assumendo nel tempo diverse funzioni: documentazione di terre inesplorate, conoscenza del mondo, testimonianza di eventi irripetibili, memoria del cambiamento.
Oggi tutti noi possediamo almeno un dispositivo in grado di produrre una buona foto: nel solo 2020, si stima che le immagini scattate e condivise in tutto il mondo abbiano superato gli 1,43 triliardi (1.436.300.000.000). Volti, monumenti, fiori, ampie vedute e piccoli dettagli...nell’infinita diversità dei soggetti contenuti in questo numero, riconosciamo un unico “filo rosso” che le accomuna: la scelta di un’inquadratura.
La fotografia, capace di cogliere solo una parte dello spazio che ci circonda, ci obbliga a prendere delle decisioni su ciò che vogliamo includere o escludere nella nostra cornice. Decisioni che dipenderanno dal significato e dal valore che noi diamo agli elementi che ci stanno di fronte. Questa operazione, più o meno consapevole, assume un significato particolare quando il soggetto della foto è un paesaggio. Attraverso lo sguardo dell’osservatore (e dell’obiettivo fotografico) avviene infatti quella magica trasformazione dello spazio in luogo, di una fredda dimensione geometrica in una realtà identitaria, carica di significati e riconoscibile come “propria”.
Al tempo stesso, combattuti tra il ruolo di spettatori e quello di autori, andiamo definendo una gerarchia di “punti di vista” da cui catturare immagini che meritano di essere inquadrate e che contribuiscono alla costruzione di un comune senso di appartenenza. Le foto in bianco e nero che popolano questa sezione del libro ci lanciano poi un messaggio ulteriore, che forse per superficialità talvolta dimentichiamo: fotografia e paesaggio, sono il risultato di una percezione.
Come a dire, dunque, che così come “vediamo” (considerando tutti i nostri sensi) il mondo che ci circonda così lo sarà anche la nostra fotografia o l’assunzione delle scelte che plasmano il nostro paesaggio.
Con queste premesse, capiamo meglio come sfogliare le pagine che seguono ci offra l’opportunità di indagare il rapporto di una comunità con il suo territorio e di adattare il materiale raccolto a più di un livello di lettura: come documento oggettivo, utile a ricostruire le trasformazioni che hanno prodotto la situazione attuale, e come rappresentazione soggettiva, che apre ad approfondimenti sulla cultura, le sensibilità e gli intenti che hanno generato quell’immagine.
In questo senso, non è esagerato affermare che il poter attingere a una collezione di foto storiche, come queste della Valle di Ledro, sia un lusso per chi vive e amministra (dunque progetta) un territorio. Significa possedere una testimonianza di come quella porzione di mondo è stata. La foto infatti rende immortale un attimo, un luogo, un volto... non a caso si immortala un soggetto. Tuttavia, come constatiamo nella realtà dei fatti, nulla si ferma e diventa immortale, nemmeno il paesaggio.
Ci stupiamo dei volti che cambiano, dei vestiti “fuori moda”, delle somiglianze con i bisnonni quando erano piccoli; parliamo della povertà dei tempi e ci diciamo, sbagliando, che si stava meglio quando si stava peggio; riflettiamo sulla guerra e su ciò che ha lasciato (o ha portato via). E in questo nostro ragionare sulle “nostre” storie, manchiamo troppe volte di soffermarci su quanto il paesaggio ha da raccontarci: le ragioni dei suoi mutamenti, la sua biodiversità che drasticamente cala, il nostro vizio di “riempire” lo spazio, anziché modellarlo “togliendo in maniera chirurgica”. Dimentichiamo anche che, nella sua potenza espressiva, la fotografia ha un ultimo straordinario: moltiplicare a dismisura gli autori. E allora quando seguiamo una story, un post, o inviamo una foto sui social, ricordiamoci che come la rappresentazione di un paesaggio non è più appannaggio di un’elitè (come lo era la fotografia ai tempi di Niépce), così anche la progettazione di un paesaggio non deve essere delegata a pochi, ma deve manifestare la visione di una comunità sensibile, attenta, artistica, visionaria, capace di “mettere a fuoco” il soggetto, fermarsi un attimo a trattenere il respiro e scattare...in avanti.
Fotografia di zona delle palafitte a Molina
Cartolina panoramica del lago di Ledro da Pieve
Fotografia panoramica di campi fuori da Tiarno di Sopra
Cartolina panoramica invernale di Enguiso
Cartolina di albergo Villa Savoia a Molina
Fotografia di donne al lavoro nei campi
Fotografia di gruppo con panorama di Tiarno di Sopra
Cartolina di strada e Zete del Ponale
Fotografia di alluvione in spiaggia a Pieve